Nota del Prof Michele Marinelli sui sindaci di Torremaggiore dal Secondo Dopoguerra ad oggi

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La “Giornata mondiale delle città” istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2013, poco più di dieci anni fa, ha dato lo spunto all’Amministrazione comunale di Torremaggiore di portare a compimento un progetto dal profilo simbolico notevole, concepito per ricordare con un’epigrafe celebrativa dedicata all’Albo dei sindaci di Torremaggiore dal 1946 ad oggi. L’albo dell’epigrafe costituisce la parte conclusiva di una più generale indagine di Ciro Panzone sulla storia amministrativa di Torremaggiore a cominciare dal “primo periodo borbonico” e cioè dal 1741 al 1794.

Si tratta di una successione apparentemente solo cronologica concernente il periodo che va dal secondo dopoguerra ad oggi. Ma l’epigrafe vuole parlarci di uomini che hanno senza risparmio profuso il loro impegno e la loro intelligenza a servizio della comunità cittadina. Per chi vuole spingere lo sguardo in profondità si capisce che non siamo di fronte ad un normale avvicendarsi di mandati amministrativi. E neppure di fronte ad un’iniziativa, da parte del sindaco attuale, dai fatui risvolti propagandistici e perfino retorici. E questo perché i nomi impressi su quel marmo raccontano la città e le sue storie, a cominciare dal periodo di transizione durante gli anni dell’occupazione degli eserciti alleati e cioè dal dicembre del 1944 all’aprile 1946. Implicitamente ci parlano delle vicende politiche e sociali di Torremaggiore, degli eventi più significativi e conflittuali legati alla resurrezione e alla crescita dei partiti che hanno espresso gli uomini che sono stati a capo dell’Amministrazione comunale. Rimandano ai suoi momenti più difficili durante il periodo del secondo dopoguerra, ma anche ai percorsi successivi, alla ricerca di sempre agognati assetti funzionali alla risoluzione di problemi antichi e nuovi di una cittadinanza in cammino. Di una Comunità operosa che ha accompagnato con spirito di vigilanza e con maturità di giudizio un’importante storia locale che ha portato gli uomini che oggi si vogliono ricordare a investire parte talora cospicua della loro vita a beneficio del superiore interesse della nostra cittadina, sveglia, partecipe e, in larga misura, schierata già durante il periodo fascista.

L’epigrafe diviene allora un sommario eloquente di oltre ottant’anni di vita pubblica, politica, sociale e sindacale; di lotte e di conquiste, di traguardi prima impensati di crescita civile e culturale dopo la disastrosa parentesi del fascismo. Essa riassume silenziosamente il coinvolgimento crescente di uomini e donne, giovani e anziani, studenti e lavoratori della terra che mai, fino a non molto tempo fa, hanno distolto lo sguardo dalla storia della propria città e dalle sue conquiste, ma anche dalle amarezze e dalle sconfitte che però si sono sempre trasformate in occasioni di riscossa e di fervida ripresa.

Omaggio dunque ai cittadini di Torremaggiore che gli uomini indicati nell’epigrafe hanno sempre degnamente rappresentato e trascinato con sé sul palcoscenico dell’Amministrazione della cosa pubblica. I sindaci della nostra città, chi più chi meno, non solo nel corso del tempo si sono sforzati di rappresentare al meglio i bisogni e le attese della comunità amministrata, ma si sono in ogni modo prodigati, nell’esercizio delle loro funzioni, di operare in sintonia, all’unisono con essi, al fine di sottrarli ad una passiva funzione di spettatori riconoscenti, per coinvolgerli in gran numero nelle iniziative che via via si andavano adottando, affinché ciascuno di essi si sentisse in qualche modo una sorta di sindaco in pectore.

I PRIMI SINDACI DELLA CITTA’ ALLA PROVA DI UN DIFFICILE DOPOGUERRA

D’altronde la stessa parola sindaco, come lo scrivente in altra occasione ha ricordato, nel suo significato etimologico, composto di “syn” e “dike” racchiude una funzione essenziale e decisiva, che non sempre conosciamo e le conferiamo. Sindaco è colui che esercita il suo mandato all’insegna della giustizia (dike) che per la società di ogni tempo, a cominciare da quella dei greci antichi che quel nome hanno coniato, è il punto cardinale, ovvero la dimensione assiale della vita politica. Perché, così ragionavano i nostri antichi maestri, la giustizia racchiude e dà senso a tutti gli altri valori della vita pubblica come la fratellanza, l’uguaglianza, la salvaguardia della dignità, la ricerca della felicità, la collaborazione di tutti per costruire una vita migliore. Perciò il sindaco è colui che non opera mai nella veste di protagonista solitario, ma ricerca, lui, a dispetto di ogni tecnicismo e di ogni “pilota automatico”, ogni ragionevole occasione di collaborazione con (syn) tutti i cittadini, e non solamente con i suoi supposti elettori.

I nomi dell’epigrafe richiamano allora il concetto-cardine della vita pubblica come servizio e non come esercizio del potere. Essi, in special modo quelli che hanno operato nei decenni dell’immediato dopoguerra, sono uomini giusti che per primi hanno incarnato, non solo nelle stanze del Municipio ma nelle piazze, nelle sedi decisionali extracomunali più idonee e propizie, i valori della Resistenza contro il nazifascismo. I sindaci dell’immediato dopoguerra per primi hanno trasmesso alla comunità torremaggiorese il messaggio policromo della nostra mai senescente (e pure “bella” come vuole Benigni!) Costituzione, generatasi dalla sanguinosa lotta di Liberazione. Essi per primi si sono affrettati a ristabilire e ad alimentare il respiro della democrazia, della vita di partito, della pluralità delle idee, della partecipazione alla costruzione di un destino comune. Essi per primi hanno ridato voce a quelle istituzioni che il fascismo aveva calpestato, deriso e soppresso, restituendo dignità a tutti quelli che il ventennio recente aveva trasformato in sudditi coattivamente ossequiosi e osannanti. Essi per primi certo, ma seguiti poi in questo avvincente cammino da quelli che, dopo, nelle scansioni dinamiche della vita politica della città, si sono sforzati di raccogliere, a prescindere dall’appartenenza politica e di partito, la loro eredità più proficua: Il loro esempio, il loro coraggio, le loro sfide. Ma anche tutto quanto richiedeva intelligenza e competenza per disegnare e progettare il futuro, attraverso lo studio talora difficile dei problemi quotidiani e delle loro risoluzioni condivise. Tutto quanto, insomma, voleva dire stimolare la partecipazione diffusa, conservare la capacità di ascolto, dar corpo ed efficacia operativa alle decisioni prese.

Il segreto della democrazia e della stessa azione politica è tutto qui. La vita quotidiana di un sindaco non è un’evasione festiva, né brilla di scintillanti ragionamenti che sgorgano dal suo credo politico; essa nulla ha a che vedere con l’agevole e consumato mestiere delle promesse facili che poi si stingono nelle intemperie del politichese più osceno e parolaio. La vita quotidiana di un sindaco è fatta, al contrario, di concretezza, di pratiche solerti, di prove ed errori come avviene per la ricerca scientifica più seria. Di soluzioni, provvisorie magari, ma perfezionabili, che richiedono tante volte la pazienza del sacrificio e la compostezza mite dell’umiltà. I nomi dell’epigrafe, che tutti da oggi possono conoscere e ricordare, sono una sorta di vademecum per un viaggio storico nella vicenda, in più occasioni travagliata, della vita della nostra città. Sono il ripasso quotidiano della lezione fascinosa del governare che vuol dire in primo luogo partire, per dir così, dai bassifondi del bisogno e delle necessità materiali, per poi risalire alle sovrastrutture delle conoscenze e del sapere confortati dall’efficacia delle risoluzioni e dal plauso dei cittadini soddisfatti.

UN EQUIVOCO INTRALCIA LE NOSTRE VALUTAZIONI

Molto probabilmente ci dobbiamo liberare di un ingombrante equivoco: l’aggettivo “amministrativo” non gode normalmente di buona reputazione ed è associato al governo dello status quo, alla mancanza di respiro politico e di progetti seri di trasformazione, ad una sorta di asfissiante routine quotidiana. Per questo è spesso guardato con circospezione, talora con disprezzo e diffidenza. Raffrontato con il più luminoso sostantivo di politica è normalmente inteso come fastidiosa e consueta gestione dell’ordinario, come carenza di grosse aspirazioni e come deprivato della spinta dell’utopia. Le cose tuttavia, a ben vedere, non stanno in questo modo. Né la vita amministrativa, nella sua autenticità, si risolve in prosaica gestione dell’esistente, né il significato della politica è racchiuso e come imprigionato nei proclami delle utopie più stolte. Le quali prima o poi finiscono per deformarsi e degenerare in distopie. La direzione giusta in cui incanalare il ragionamento è quella allora di uscire da una concezione della politica come cammino nel cielo dei sogni (che pure sono necessari, e in larga misura, per darle efficacia e sostanza) e considerarla nel modo più semplice, etimologico direi, e cioè come Sapere della Città. Politica è, come molti sanno, primamente e propriamente polis, cioè città, vita della e nella città. E’ lì che essa sorge, matura e si articola preparandosi ai futuri ampliamenti del suo perimetro operativo. La città è insomma la prima palestra di vita in comune. E quindi la vita “amministrativa” è la prima germinazione di programmi e idee, esse già politiche, che poi si arricchiscono di elementi complementari e integrativi nelle istanze via via superiori della vita pubblica e istituzionale fino a sfociare, per noi, nell’utopia, questa volta concreta, di un’Europa dei Popoli e non del denaro e delle armi. La città è allora la culla della democrazia e della vita politica. La città è la prima cellula della vita comunitaria. Senza l’impegno costante e motivato nella e per la propria città in primo luogo, senza la fatica dell’amministrazione quotidiana, a partire dal comune di piccole dimensioni per giungere al grosso centro metropolitano, la politica buona non decolla. Anzi intristisce nella prosaicità del già visto, si impigrisce nella sonnolenza dell’ordinario, quando non precipita miserrimamente nel gorgo della corruzione, del malcostume e del malgoverno.

CHE COS’E’ LA PATRIA

Oggi si sente pronunciare spesso, e tante volte a torto, la parola Patria nella accezione propriamente neofascista in cui viene rivisitata. Sradicata dalle sue più ramificate radici risorgimentali e piegata a una distorsione che ne altera pesantemente il significato morale e ideale. Snaturata dal sovranismo montante, associata alla difesa dei “confini” contro i “nemici” migranti, declinata nella versione della supremazia di un malinteso, comico “orgoglio” e di una concezione muscolare della nazione di provenienza. Tuttavia questi patrioti, come amano essere chiamati, ad una maldestra enfasi retorica abbinano una dose soverchiante di ignoranza. Essi non sanno che in origine patria è prima di tutto il luogo in cui si è nati, la città da cui si proviene, come aveva capito e detto il Sommo Poeta quando chiamava “patria”,prima di ogni altra cosa, la sua Firenze, la terra cioè abitata dal popolo fiorentino, ricca di vitalità politica, sociale e culturale. La città che egli fu costretto a lasciare dopo la condanna all’esilio, l’oggetto delle sue invettive e accuse colme di risentimento, ma anche la “patria”, la “gran villa” che egli amava profondamente e verso cui nutriva un senso di profonda nostalgia. La patria, sembra dirci il Poeta, è la prima terra di appartenenza, l’apprendistato dello sguardo e del confronto con i propri concittadini, ma anche il luogo dei conflitti e delle differenze in cui a prendere la parola sono interessi, idee e valori contrapposti. Il Grande Fiorentino, senza nominarla, perché non ne conosce ancora il concetto nell’accezione moderna, ci sta dicendo che la Città è il posto idoneo al sorgere della democrazia, il posto dove prosperano il rispetto e il confronto politico. L’istanza in grado poi di potenziarsi in una dimensione superiore che è l’Italia, e, più su per i suoi tempi e in ossequio alla sua grande utopia, l’Impero. Altro che “fondatore del pensiero di destra” come dice il malcapitato e ignorante ex ministro Sangiuliano, che pure si fregia del possesso di ben 15.000 volumi.

Chi è dunque il patriota? E’ forse sbagliato allora dire che è in primo luogo il cittadino che ama e vive nella propria città e che insieme con gli altri elegge il suo sindaco e partecipa attivamente alla vita pubblica? E a che cosa già alludeva, con grande senso di appartenenza, il poeta latino Orazio quando nelle Odi (III, 2,13) scriveva “ dulce et decorum est pro patria mori” se non alla sua Roma, erede del leggendario Asylum romuleo, il luogo cioè in cui a chiunque l’avesse richiesto dopo averla raggiunta, la città avrebbe assicurato accoglienza e protezione? …Proprio come avviene oggi, in Italia e altrove, con i migranti richiedenti asilo!!! A che cosa alludeva Orazio scrivendo quelle parole se non ancora alla sua Patria per la quale auspicava l’impegno della gioventù ad imitare virtù ed eroismo guerriero dei suoi antenati?

IL LABORATORIO DEL COMUNALISMO

Il Comune,per non parlare delle numerose poleis greche antiche, è,come si può vedere, un amore di vecchia data. Anche se sarà il Medioevo a dar vita, in Italia non solo, ad una vera e propria “Età comunale”. Da allora il “pensiero” che celebra la centralità del comune non cessò mai di operare, seppure in forme carsiche, nella mente e nei cuori di uomini nobili, nonostante esso abbia dovuto difendersi dall’accusa, non sempre infondata, di “particolarismo” che secondo una certa storiografia ha rallentato, e forse compromesso e segnato, il processo di unificazione nazionale.

Le idee, purtroppo, sono come le guerre. Vengono celebrate soltanto quelle dei vincitori, le altre sono relegate nel limbo privato di una neutrale indifferenza, quando non ignorate o del tutto obliate. Una di queste è stata chiamata proprio “Comunalismo”. Essa scaturisce dall’incrocio di due diverse tradizioni di pensiero politico e vede come protagonisti Carlo Rosselli, il fondatore di Giustizia e Libertà,da un lato e dall’altro l’anarchico Camillo Berneri, entrambi autori, negli Anni trenta del secolo scorso, di un interessante carteggio. Sia Berneri che Rosselli morirono assassinati, rispettivamente dai sicari di Stalin e da quelli di Mussolini, perché la loro “libertà” era la ricerca di una democrazia autentica che sorge dal basso ed è fondata su una spinta alla partecipazione spontanea e alla gestione diretta della cosa pubblica. Pur partendo da convinzioni politiche differenti, Rosselli e Berneri giunsero ad una identica visione della società. Il loro “libertarismo” fu negli Anni ottanta alla base del Comunalismo concepito e teorizzato dal sociologo e filosofo statunitense Murray Bookchin. Un’utopia concreta la sua, essendo stata realizzata con successo nel Rojava, territorio libero e indipendente controllato dai curdi siriani, in collaborazione con altre popolazioni del posto, e situato ai confini con la Turchia.

Questi modesti ma significativi riferimenti sono affiorati alla mente di chi scrive dopo aver partecipato alla cerimonia dell’Albo celebrativo dei Sindaci di Torremaggiore. A ben vedere, il Comunalismo di Bookchin ricorda le numerose esperienze di diffusa partecipazione alla vita pubblica e amministrativa dei cittadini di Torremaggiore, specialmente, come si è detto, nel corso del primo trentennio del secondo dopoguerra. Nella testa di molti prese forma, allora, l’idea che la vera partecipazione è proprio quella che procede dal basso e che spesso si realizza solo nei comuni. Ma è lecito credere che essa è possibile, con le dovute forme di correzioni, arricchimenti e articolazioni, anche nei contesti di più ampio perimetro. Certo, non è bene ignorare la difformità talora grave dei bisogni, delle aspirazioni e degli interessi in conflitto, le contrapposizioni a volte insanabili che paiono non avere vie di sbocco. Nondimanco, come ebbe a dire Max Weber in una sua memorabile conferenza, “Se non si tentasse sempre di nuovo l’impossibile non si conseguirebbe mai il possibile”. E’ proprio nei momenti di difficoltà e di pericolo che la democrazia si mette alla prova, si collauda in un processo interminabile e si rende capace, con il concorso dell’immaginazione, di una spinta ulteriore e più vigorosa.

Altre vie, se non l’orrore delle dittature o gli inganni delle domocrature, non ci sono. Ed è in tali momenti che la vita del Sindaco e delle amministrazioni comunali diventa difficile. Tuttavia è solo dal confronto e dalla polifonia delle voci, anche quando esse sembrano non disposte all’ascolto reciproco, e, anzi, amano solo lo scontro, che nasce la possibilità di un cambio di marcia della vita di una comunità. La possibilità cioè che la partecipazione si intensifichi e si qualifichi ulteriormente e non si impoverisca nella semplice espressione di una preferenza di voto al momento dell’appuntamento elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale. La democrazia si fonda sulla diversità di pensiero e sulle differenti vedute. Guai a noi se non ci fossero. Anzi, questo è, è stato, in alcune fasi particolarmente felici della vita della nostra città, un punto di non ritorno. Una memoria, per le nuove generazioni, del “mondo di ieri” con le sue ombre ma anche con le sue luci. Con la scommessa della libertà sempre all’ordine del giorno. Perché, come scriveva Alexis de Tocqueville in un celebre passo, allo scrivente particolarmente caro, del suo capolavoro La democrazia in America , “è nel comune che risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole primarie sono per la scienza; esse la mettono alla portata del popolo, gliene fanno gustare l’uso pacifico, e l’abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali, una nazione può dirsi un governo libero, ma non possiede lo spirito della libertà”.