Un mese senza Sabino Colangelo: riflessione del sindaco emerito di Torremaggiore Prof Michele Marinelli

Riceviamo e pubblichiamo il ricordo del sindaco emerito di Torremaggiore Prof Michele Marinelli, la responsabilità del contenuto è esclusivamente dell’autore

Un mese senza Sabino Colangelo. Un mese con il pensiero che quotidianamente fatica a “normalizzarsi” e a concentrarsi su altro. Quella di Colangelo è stata, sicuramente non solo per chi scrive, una scomparsa subitanea e inattesa perfino inaccettabile. Una scomparsa dinanzi alla quale il salvagente di una ordinaria elaborazione del lutto serve solo a galleggiare nel tormento di una difficile e sferzante rassegnazione.

Non basta a riempire il vuoto della scomparsa il ricordo piacevole, accanto a numerosi importanti incarichi, della sua militanza politica nelle vesti di segretario dei Democratici di Sinistra della Federazione provinciale di Foggia e del suo impegno amministrativo nel Consiglio della Regione Puglia. Può, ancora, non bastarci ricordare i suoi comizi e i suoi interventi nelle più svariate sedi e occasioni, sempre lucidi, incisivi e ricchi di una forza persuasiva inusuale.

Non basta neppure lo sforzo, da lui compiuto negli anni giovanili, volto a ritagliare uno spazio speciale per la “diversità” comunista. Capace di accreditarsi, questa, come salutare alternativa a quei partiti divenuti “soprattutto macchine di potere e di clientela” come dichiarava Enrico Berlinguer nell’intervista di Repubblica rilasciata a Eugenio Scalfari in data 28 luglio 1981.

LE TRE DIREZIONI DI UNA POLITICA

Ma allora cosa mai può aspirare ad avere successo in questa sofferta ricerca del patrimonio più consono e appagante che Colangelo ci consegna?

La risposta, io credo, va ricercata nell’indicazione di TRE PUNTI che, in maniera del tutto peculiare, caratterizzano e qualificano il suo operato di dirigente e di uomo politico.

  1. In primo luogo egli ha concepito non solamente la militanza di partito bensì la politica stessa come circolarmente legata all’amicizia. Si può restare stupiti, perfino sconcertati, di fronte ad una siffatta affermazione. Soprattutto i politici “realisti”, che amano andar per le spicce e ripudiano il “sentimentalismo” romantico, affetti come sono da cinismo inguaribile, nonché studiosi di valore e di consolidata rettitudine intellettuale, ma innamorati a volte dei cieli tersi dell’astrazione, vedono nella storia della politica moderna l’affermarsi di un paradigma di conio liberale che tiene ben separate la politica e l’amicizia. Dal momento che, come ha osservato Salvatore Veca, “mentre la politica e i suoi criteri di valutazione hanno e devono avere luogo nello spazio pubblico in cui si confrontano ragioni impersonali, quando noi parliamo di amicizia intendiamo riferirci a relazioni personali (…). L’idea liberale è che un conto è definire il vincolo propriamente politico, un conto è definire un’ampia gamma di vincoli che individui possono intrattenere tra loro quando essi, appunto, non siano politici”. (S.Veca, Una conversazione su amicizia e politica, in E.Berti/S.Veca, La Politica e l’Amicizia, Roma, Edizioni Lavoro 1998, p.5). Anche a supporre e anzi ad esigere “interpretazioni alternative del bene comune” (ivi p.6) all’interno di ognuna di esse non è da escludere la valorizzazione del modello greco antico secondo il quale l’amicizia, intesa come vera e propria virtù, è, come scrive Enrico Berti, “la base stessa della società politica” (E.Berti, in op.cit., p.24).

Pareva, a chi di Sabino Colangelo aveva soltanto una conoscenza tout d’abord, che egli amasse le soluzioni sbrigative, riducendo i tempi della discussione e concedendo poco spazio al confronto delle opinioni. Ma per chi ha potuto conoscerlo a fondo e trascorrere con lui svariate stagioni di vita politica, non era così. Non si trattava per lui di portare sulla ribalta della militanza quotidiana la sua naturale indole amichevole, aperta con interesse all’ascolto delle ragioni altrui. Si trattava, piuttosto, di porre in atto una consapevole e perseguita consonanza di politica e amicizia, collante e sostegno, quest’ultima, delle decisioni comuni e condivise.

Aveva capito Colangelo che la “diversità” comunista, che lui tendeva a mantenere viva anche dopo lo scioglimento del PCI, si giocava in primo luogo sul versante dello stare insieme. Sul versante cioè della collaborazione per il conseguimento di fini alla radice dei quali non c’era il calcolo aritmetico delle opportunità e delle convenienze, ma la costruzione, con la discussione amichevole e il rispetto delle diversità, di un conclusivo comune sentire e decidere al fine di un comune operare. Ciò permetteva innanzitutto di imprimere slancio ideale a una politica fatta di cuore e non soltanto di cervello e “programmi” e di salvaguardarla, inoltre, da una supina e notarile amministrazione dell’esistente. Non solo: l’associazione di amicizia e politica significava per lui una disdetta di qualsivoglia concezione gerarchica ed escludente delle relazioni di potere. E dava senso e spesso solidità alla stessa “disciplina di partito”.

Una volta, tanto tempo fa, Sabino mi segnalò di Albert Camus, scrittore, filosofo, giornalista e attivista politico francese, scomparso ancora giovane il 4 gennaio 1960, una composizione poetica sull’amicizia che non è sbagliato “iniettare”, come salutare farmaco, nel corpo malato del sistema politico odierno. Per il quale “l’amicizia sembra poter sussistere soltanto laddove non siano in gioco interessi politici” (E. Berti, in op.cit., 23). Sono parole, quelle dello scrittore francese, che ogni politico dovrebbe leggere e meditare. Ogni studente conoscere e diffondere. “Non camminare davanti a me, scrive Camus, potrei non seguirti. Non camminare dietro di me, potrei non saper esserti di guida. Cammina accanto a me e sii solamente mio amico”. Si tratta, come si può vedere, non solo di un pregevole inno all’amicizia, ma anche di una ferma critica della strutturazione verticale, autoritaria del potere.

Sabino Colangelo, politico sobrio, intelligente e instancabile fino al punto di sottomettere le urgenze della salute ai sempre prorompenti comandi della politica, quando mi segnalò questo piccolo gioiello partorito dalla mente dello scrittore francese, non lo fece per un estemporaneo vezzo intellettuale, lui che “intellettuale” non era. Ma lo fece perché aveva compreso con lucidità sorprendente tutta la densità politica di quel messaggio poetico.

  • Il secondo punto su cui conviene soffermare l’attenzione riguarda la natura stessa della “macchina” politica come congegno di funzionalità e di efficacia operativa. Con l’affermarsi tra Ottocento e Novecento dei partiti moderni, l’impianto stesso del “politico” aveva bisogno di rimodellarsi e rinvigorirsi, emancipandosi dalla bulimia di una conflittualità permanente o ricorrente teorizzata da Thomas Hobbes nel Seicento e alternativa all’organicismo di derivazione aristotelica. Questa visione oppositiva ancora spingeva, in pieno Novecento, Carl Schmitt, uno dei maggiori giuristi e politologi del nostro tempo, a vedere come aspetto costitutivo della politica il rapporto AMICO-NEMICO. Quel rapporto cioè in cui gli amici sono tali, in politica, perché hanno lo stesso nemico e dunque sono tenuti insieme dall’inimicizia piuttosto che dall’amicizia. Il pensiero del giurista tedesco, pilastro del nazionalsocialismo hitleriano, esercitò fascino e influenza, in Italia, anche in quei settori della sinistra che privilegiavano la politica come conflitto e in alcune personalità dell’operaismo comunista come Mario Tronti, scomparso il 7 agosto scorso.

Ebbene, nella sua vita di dirigente politico Sabino Colangelo, anche dopo la svolta della Bolognina e lo scioglimento del Partito comunista italiano il 3 febbraio 1991, si rese interprete, nella realtà territoriale e nei settori di competenza in cui operava, della migliore eredità della concezione togliattiana della politica. Che, certo, prevedeva, nell’ottica propriamente moderna della conflittualità, la lotta a viso aperto contro la società capitalistico-borghese, ma riabilitava, secondo una complementare impostazione strategica diretta a ricercare consensi e alleanze, il momento della tessitura, della sintesi e della composizione del conflitto che aveva fatto del Partito comunista il “Partito nuovo” voluto da Togliatti.

Nella prassi politica di Colangelo insomma è stata sempre all’opera la migliore eredità del comunismo italiano che egli si sforzò di tradurre, non tanto, a parere dello scrivente, nella blasonata e ricorrente parola d’ordine dell’unità che poteva essere, inalcune fasi di prevalente burocrazia interna di partito, anche fittizia o forzata. Quanto nella ricerca dell’accordo come ordito strutturato all’insegna dell’egemonia gramsciana che univa il momento del comando e quello del consenso in una solida e durevole unità. La politica, nell’interpretazione e nella prassi quotidiana di Sabino Colangelo, rifuggiva, pena la sua sterilità se ingessata in schemi rigidi e precostituiti, dai canoni uggiosi della logica binaria, da comodi riduzionismi ”referendari” che la  impoveriscono, trasformandola  in una pratica di computisteria.

Chi scrive, avendo avuto occasione di conoscere Colangelo sin dagli anni del liceo al Nicola Fiani di Torremaggiore, può affermare con certezza, e non solo per onorare la sua memoria in questa interminabile e dolorosa ora di commiato, che per lui la politica era il respiro mattinale di una mente (e di un cuore) desiderante. Quel respiro che deborda dal perimetro limitante di un onesto esercizio professionale. La politica per lui è stata sì anche una professione. Ma è stata, soprattutto, il “sogno di una cosa” per dirla con le parole scritte dal giovane Marx in una lettera ad Arnold Ruge del 1843.

  • Un ultimo punto va infine sottolineato. In una fase di grave fibrillazione e di pericolo per le sorti di tutti, con una terza guerra mondiale in itinere, disseminata in punti diversi e diversamente pericolosi del pianeta, la superiore dignità della politica, che ha contraddistinto la vita e le scelte di Colangelo, ci serve di ammonimento, ci obbliga all’onere dell’attenzione e della cura. Noi sappiamo di non disporre di altri mezzi se non della parola che cerca il confronto e la persuasione, del dialogo che costruisce posizioni condivise, della lucidità di pensiero che smaschera colpe, omertà e mistificazioni, dell’impegno concreto per una Pace che apra spiragli possibili di salvezza.

 Nella vita politica di Sabino Colangelo non c’è mai stata compromissione, come lo scrivente ha avuto occasione di scrivergli in un messaggio del 3 agosto scorso, con la bassezza di calcoli interessati e personalismi odiosi. Calcoli e personalismi, cresciuti a dismisura, che non sono più, oggi, solamente il sedimento, sul piano nazionale, di una politica decrepita che si dimena nella melma di un ristagno palustre. Ma si trasformano, in proporzioni ormai gigantesche e su scala mondiale, nella follia vertiginosa della guerra come “sola igiene del mondo”. Come ragione di prestigio muscolare volto al mantenimento ovvero alla creazione di spazi populistici di consenso, personale o di partito. Come primazia e dominazione assolute sul palcoscenico di una geopolitica che sfugge ad ogni controllo.

 Quella guerra che non è la continuazione della politica con altri mezzi, come voleva Von Clausewitz, ma il volto criminale e crudele della politica, che distrugge perfino la promessa di futuro ammazzando e sterminando bambini. Che conosce e percorre una sola strada, quella della distruzione e della pulsione di morte.

LA POLITICA E LA MORTE

Può la politica riscattare dalla morte?  Non solo quella delle guerre, ma tutte le moltissime morti causate dalle sue decisioni che normalmente tengono conto di tutt’altro e non della salvaguardia della vita felice di persone e comunità? La politica ha ancora la forza e la volontà di porsi al riparo di scelte che la spingono nelle braccia della pietrificante Gorgone? Il degrado crescente che la connota e il suo conseguente affidarsi all’abominio di guerre sempre più esecrabili e disumane lascia forse spazio a illusioni e speranze? Se la politica, detto altrimenti, che è la Vita stessa della Città, si trasforma in dispositivo bellico con il ricorso sistematico all’uso delle armi quale mai riscatto dalla morte aspettarsi da essa?

Già presso i greci antichi l’enigmatico e “oscuro” Eraclito (535 a.C. – 475 a.C.) nativo di Efeso, oggi tra i maggiori centri archeologici del mondo, un tempo città fiorita sulla parte costiera dell’odierna Turchia, in nome del principio dell’unità degli opposti aveva stretto un poderoso legame, fino all’intercambiabilità concettuale e linguistica, tra la vita e la morte. “Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte”. Questo leggiamo in uno dei suoi principali frammenti rimastici. La parola per indicare l’arco che dà la morte è la stessa che si usa per chiamare la vita: biòs è arco, bìos è vita. Cambia solamente la posizione dell’accento. Al posto della parola arco potremmo scrivere la parola politica e riformulare il frammento eracliteo in questo modo: “Della politica il nome è vita, ma l’opera è (anche e, spesso, solo) morte”. Salta l’intercambiabilità linguistica, ma, ed è quello che interessa, resta quella concettuale.

Noi però abbiamo l’obbligo di domandarci se e come è possibile spezzare questa circolarità, questo connubio tossico e violento. Se è nostro dovere divincolare la vita dal suo contrario, dissociare la politica che della vita costituisce l’espressione suprema dalla distruzione devastante della morte.  A proposito di quest’ultima, al netto di ogni credenza religiosa, non c’è veramente nulla da fare.  Seneca, per esempio, ha potuto solo esorcizzarla e “domesticarla” quando in una delle sue lettere a Lucilio gli dice di non piangere la perdita di una persona cara perché “ciò sarà tanto sciocco quanto piangere perché dagli alberi che adornano casa tua cadono le foglie” ( L.ucio Anneo Seneca Lettere a Lucilio, 104,11). “Morire è una legge non una punizione” (lex est, non poena, perire), scrive ancora Seneca in un testo poetico a lui attribuito.

Ma la politica non è vivaddio un corpo biologico che al termine del suo ciclo vitale si consegna naturalmente alla morte. Essa è, bensì, il prodotto culturalmente più elevato della condizione umana. Il presidio e il presupposto di qualsivoglia altra forma del Sapere.  E’ soggetta al deperimento, alla corruzione, alla degenerazione fino alla putrescenza proprio come il corpo biologico. Ma non alla morte finché al mondo ci sarà una comunità di uomini degni di questo nome. E il cui volto, come ha scritto Giorgio Agamben, è “il luogo della politica (…), la condizione stessa della politica (…), la vera città dell’uomo, l’elemento politico per eccellenza”. (G. Agamben Il volto e la morte, in  Neue Zurcher Zeitung, 30 aprile 2021).

Ebbene, allora, non ci resta che la politica come via di salvezza, come anello di congiunzione ma anche di discontinuità tra la vita e la sua negazione, come strada maestra di riscatto, mai definitivo certo, dalla realtà inaggirabile e minacciosa della morte.  E questa sembra essere proprio la complessiva, preziosa donazione testamentaria di Sabino Colangelo.

                                                      MICHELE   MARINELLI  11 novembre 2023
già sindaco di Torremaggiore